L’ "informativa” del Governo alle Camere, attraverso gli interventi dei Ministri Nordio e Piantedosi, ha consentito di fare chiarezza almeno su un punto, ma decisivo. La scarcerazione e la successiva espulsione del cittadino libico Almasry sono una precisa scelta politica del Governo adottata per la tutela dell’interesse nazionale. Lo ha detto limpidamente, in un chiaro burocratese, il Ministro Piantedosi citando «esigenze di salvaguardia della sicurezza dello Stato… unitamente alla difesa dell’interesse dello Stato… nell’obbiettivo di evitare, in ogni modo, un danno al Paese e ai suoi cittadini» (Resoconto stenografico Camera 5 febbraio 2025 p.8). Ma alla stessa conclusione si giunge all’esito del contorto, per certi versi surreale, intervento del Ministro della Giustizia. Alle diverse versioni fatte circolare nei giorni scorsi ha aggiunto, sembra, la difficoltà di valutare un testo, il mandato di arresto della Corte Penale internazionale, di ben quaranta pagine scritte in inglese! L’inglese giuridico internazionale ormai lo maneggiano tutti gli operatori del diritto e tra questi certamente i collaboratori del Ministro a via Arenula.
L’intervento alla Camera del Ministro Nordio ha evidenziato ulteriormente tutte le arditezze degli argomenti “difensivi”: egli si è attribuita, arrivando a definirlo “nullo”, una valutazione del merito del provvedimento della CPI, preclusa in questa fase di mera esecuzione del mandato. Se avesse ritenuto necessari chiarimenti, avrebbe dovuto attuare tempestivamente (e mentre permaneva lo stato di arresto) un’interlocuzione con la CPI (art.91 dello Statuto); ha invece lasciato trascorrere il tempo, senza dare alcuna risposta alla Corte di Appello di Roma, rendendo ineluttabile la scarcerazione. Infine il Ministro della Giustizia, tra le tante divagazioni e un attacco alla magistratura del tutto fuori luogo in quella sede, ha detto che vi è stata una interlocuzione «con altri organi dello Stato»: dunque la mancata risposta alla Corte di Appello di Roma è stata dettata dalla considerazione da parte del Governo dell’interesse nazionale. Se questa assunzione di responsabilità politica da parte del Ministro della Giustizia fosse stata tempestiva, la vicenda penale probabilmente non sarebbe nemmeno iniziata. Ora è aperta la strada per una archiviazione diretta sui reati di favoreggiamento e peculato già da parte del Tribunale dei Ministri.
Rimaneva e rimane aperta la questione dei rapporti del nostro Paese con la Corte penale internazionale, non essendo stato adempiuto l’“obbligo generale di cooperare” previsto dall’art 86 di quello Statuto di Roma al quale siamo vincolati. La notizia che un cittadino sudanese rifugiato in Francia avrebbe denunciato alla CPI esponenti del Governo italiano per i “reati contro l’amministrazione della giustizia” previsti dall’art. 70 dello Statuto ha suscitato reazioni piuttosto scomposte. Che la denunzia sia stata ricevuta e protocollata dalla cancelleria della Corte è assoluta ovvietà; altro è un eventuale sviluppo, che appare del tutto improbabile, poiché i reati previsti sono di questo tipo: falsa testimonianza, falsi documenti, subornazione di testi, corruzione di un funzionario della Corte etc. Le reazioni di diversi nostri esponenti politici è stata però quella di un attacco frontale alla Corte Penale Internazionale. Non sorprende che l’on. Gasparri si affretti a definire «risibili le indagini della CPI sul Governo italiano», prima ancora che indagini vi siano. Non uno qualunque, ma il Ministro degli Esteri Tajani, che già nei giorni scorsi aveva mostrato poco rispetto per la CPI, ora arriva ad auspicare «un’inchiesta sulla Corte penale». Il Ministro Nordio, nel genere boutade che gli è caro, discetta tra giustizia divina e giustizia umana. Eppure proprio chi regge il dicastero intitolato alla Giustizia dovrebbe meditare molto seriamente sullo strappo alla legalità internazionale che si è consumato in nome della Ragion di Stato.