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La fragilità del potere che si mette a gridare

3 ore fa 1
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Caro direttore, è suonata assai poco “meloniana” l’assenza di Giorgia Meloni dal confronto parlamentare dell’altro giorno. Dissolto il vizio della sua spavalderia, e archiviata la virtù del suo assumersi sempre ogni responsabilità, la premier per una volta ha lasciato soli i suoi ministri –e forse soli anche i suoi tifosi. E si ignora se il suo farsi da parte, fosse pure per mezza giornata, l’abbia fatta sentire più sicura o magari invece più fragile.

S’intende che questa volta la premier avrebbe dovuto esserci. Per un dovere istituzionale molto prima che per un diritto politico. Ma s’intende pure che anche l’interesse di parte avrebbe reclamato la presenza. Dato che è proprio in certi passaggi impervi che una leadership si trova a temprare se stessa e a dar prova del suo talento. Quasi che la sua utilità fosse racchiusa proprio in certi suoi obblighi.

Così non è stato, ed è possibile che la premier se ne sia pentita. Ma l’argomento è più vasto e non riguarda solo lei.

Il fatto è che quel passaggio repentino che per una volta s’è prodotto da un eccesso a un difetto di personificazione racconta uno dei tanti paradossi della leadership dei giorni nostri. Laddove chi si trova a guidare un movimento politico è quasi sempre consapevole di non poter fare miracoli, data la difficoltà dei tempi che stiamo attraversando. E però in cambio di quello che non riesce a fare offre un campionario di promesse, rassicurazioni, lusinghe, proclami che dovrebbero riempire il vuoto delle possibilità che le sono concesse. E invece, inevitabilmente, proprio in questo modo finisce per dilatare quel vuoto fino a farsene inghiottire.

Il fatto è che il potere dei nostri giorni appare fragile. Perfino più fragile di come era appena qualche anno fa. In compenso il racconto che il potere contemporaneo fa di sé suona invece orgoglioso, tronfio, alle volte perfino minaccioso. L’annuncio sostituisce la possibilità. In questo modo l’elettorato viene indotto a seguire i propri condottieri lungo un percorso che conduce il più delle volte verso il nulla. Un percorso che però viene attraversato facendo rullare fin troppo rumorosamente i tamburi dei propri annunci e qualche volta arrivando a stilare il bollettino di vittorie che difficilmente ci saranno.

Anche Meloni si trova oggi a fare i conti con questa fragilità. Ma rifiuta di riconoscerla. E così finisce per accrescerla. La sua filosofia di governo non sembra contemplare il culto della collegialità. Ai ministri viene chiesta obbedienza e viene suggerita modestia. Si può convivere con il loro talento non proprio grandioso, meglio ancora con la loro personalità politica mai troppo ingombrante. Così può rifulgere meglio il primato della premier. La quale però a quel punto si trova a doversi caricare in spalla tutti i pesi che mancano alla bilancia del suo governo. Quasi che il basso profilo altrui debba servire a far risaltare meglio il fulgore della propria leadership. Cosa che ovviamente non sempre può accadere con la teutonica precisione che le moderne abitudini vorrebbero suggerire.

Il fatto è che proprio quella leadership, confezionata in nome del suo eccessivo primato, inciampa poi quasi sempre nelle difficoltà che incontra. E tanto più vi inciampa se pretende di addossare a sé, e solo a sé, ogni compito di rilievo. Poiché oggi la politica può molto meno di un tempo, e dunque farebbe bene almeno a non eccedere con l’annuncio di epiche fatiche che assai raramente si tramutano in gloria.

Così, il vuoto lasciato da Meloni nelle aule parlamentari finisce per diventare l’argomento che lei non recita e non padroneggia. E che facilmente le viene rivolto contro in nome di tutte le volte in cui invece ha esercitato tutta la presenza e la loquacità che la moderna leadership considera tanto doverosa e tanto confortevole. Salvo doversene pentire, prima o poi.

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