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Yasser Arafat, leader dell’Olp, gira per Roma con la moglie Suha, tra un incontro al Quirinale e uno al Vaticano. A distanza, per non farsi vedere, lo seguono un fotografo e un cronista.
Va tutto bene, fino a quando Suha scende da sola dall’auto blindata a Villa Borghese. La scorta vede fotografo e cronista, la macchina parte a razzo, sgomma, punta dritta contro i malcapitati: quando sembra arrivata la fine, inchioda e si ferma a un centimetro dalle ginocchia del fotografo e del cronista.
Il cronista è quasi cadavere. Il fotografo è Rino Barillari e resta dritto come un fuso, lo sguardo fiero, la sigaretta tra le labbra che manco lasciano cadere la cenere. Lui è il King: e domani compie 80 anni: «Quel giorno ti eri spaventato eh? Non bisogna mai far vedere la paura ai personaggi, altrimenti è falliment».
Sarà pure “falliment” Rino, ma quante volte ti hanno mandato al pronto soccorso?
«Ne ho contate 164, ma è il lavoro, va fatto così e non può essere altrimenti, tra omicidi, sparatorie, manifestazioni, manganellate».
Sei scappato da casa dal paesino di Limbadi, in Calabria, a 14 anni. Cosa hai fatto arrivato a Roma?
«Intanto sono arrivato senza un soldo, li avevo spesi tutti per il viaggio. Ne avessi avuti di più sarei arrivato a Milano. Mi mettevo a Fontana di Trevi per prendere qualche lira da quelli che si facevano le foto lanciando la monetina: fermavo le persone per non farle passare davanti e rovinare lo scatto. Così piano piano ho cominciato a capire come si facevano le fotografie e sono riuscito a comprarmi macchina Comet».
E da Fontana di Trevi sei salito a via Veneto?
«Sì, lì c’era il mondo dei sogni, quello del cinema. Fellini, Liz Taylor, Anita Ekberg, Audrey Hepburn».
Peter O’ Toole si arrabbiò molto con te e con un cazzotto ti spaccò un orecchio.
«Mio padre venne su dalla Calabria per fargli causa. Finì che mi risarcirono con un milione. Mio padre, che voleva in tutti i modi che smettessi di fare quella vita, dopo quell’assegno mi disse: “Vabbe’, ora puoi continuare”».
Una delle tue regole: mai essere amici dei personaggi, altrimenti non fai le foto. Ma qualcuno vicino c’è stato?
«Qualcuno mi ha fatto infrangere la regola. Marcello Mastroianni, che era delizioso e magari mi chiedeva di non fotografarlo da dietro che si vedeva un po’ la chierica, ma era contento se lo riprendevo mentre era a spasso con la figlia. Ma anche Gina Lollobrigida, una di famiglia. E senza dubbio Sophia Loren: se lei era in un locale e sapeva che io ero fuori ad aspettare mi faceva mandare una coppa di champagne».
E tra i personaggi di oggi?
«Il migliore è George Clooney. Quando mi vede mi fa l’occhiolino e scappa fingendo di non conoscermi, poi si gira e si fa fare tutte le foto che voglio».
Perché ti chiamano il “King dei paparazzi”?
«Perché negli anni ’80 giravo con il grande Ivan Kroscenco, il primo re dei paparazzi, un uomo formidabile, che una notte, davanti a tutti, mi mise una corona in testa».
Il tuo altro grande amore è la cronaca nera: nei tuoi scatti c’è l’anima delle vittime e dei carnefici.
«L’obiettivo non mente, per questo è così importante, perché siamo in grado di cogliere uno sguardo, un dettaglio, una piega della realtà che racconta una storia intera».
Un giorno, all’alba, fotografasti un ragazzo morto di overdose sulle scale dell’uscita della metropolitana.
«Lo ricordo bene: era riverso a pancia in giù, lo ripresi dal basso e aveva il braccio destro proteso in avanti, verso la luce, come se con le ultime sue forze avesse cercato di afferrare la vita. Con quella foto volevo restituirgli una impossibile, ultima speranza».
Ci sono degli scatti che hai deciso di non pubblicare, in tanti anni di cronaca al “Messaggero”?
«Hai voglia, tantissimi. Tu devi capire facendo questo mestiere che hai il potere di rovinare una vita o di rovinarla a chi rimane dopo la morte di una persona che ha amato. Allora devi decidere cosa è giusto pubblicare e cosa no. Nel nostro mestiere deve contare sempre l’occhio, ma prima ancora deve contare l’anima».
Esiste ancora questo giornalismo fatto per strada?
«Non esiste più il mondo in cui siamo cresciuti. Ora se arrivi su un omicidio prima della Polizia ti arrestano, una volta ti premiavano e magari contribuivi a risolvere i casi. Poi ora tutti fanno le foto a tutto e le mettono sui social: ma quelle foto non sono il racconto della realtà, sono l’immagine che la gente vuole dare di sé».
Qual è il ricordo più brutto della tua vita?
«La notte del concerto di Mina e Aznavour a Viareggio nel 1966. Tornando di notte, ad Altopascio, avemmo un incidente d’auto e il mio amico Roby Ferrante morì sul colpo».
Domani sera festeggerai gli 80 anni all’Harry’s Bar a via Veneto, ma qual è la foto che vorresti ancora fare?
«Papa Francesco, di notte, a spasso per Roma da solo, vestito in abiti borghesi, senza bastone e senza scorta. Il Papa, solo, nella notte. Se la comprerebbero tutti».
Tornassi indietro di 60 anni, cosa vorresti fare?
«Ancora il paparazzo, raccontare da capo la verità, nel bene e nel male. Perché è questo che dobbiamo continuare a fare: raccontare la verità».