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Se la politica si riduce a commedia dell’arte

5 ore fa 1
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Una chiara contraddizione è emersa ieri dagli interventi dei ministri Nordio (Giustizia) e Piantedosi (Interno) in Parlamento sul caso Almastri. Attesi dalle opposizioni, che non hanno mancato di lamentare l’assenza della premier Meloni, i due hanno fornito versioni differenti di ciò che è accaduto tra il 18 gennaio, giorno in cui la Corte penale internazionale dell’Aja ha spiccato l’ordine di cattura per il generale libico accusato di crimini verso l’umanità, e il 21, quando, scarcerato, veniva riaccompagnato a Tripoli con un aereo dei servizi segreti.

Nordio ha posto subito la questione-chiave attorno a cui ruota tutto il caso: la legge che regola i rapporti della Cpi con gli Stati che la riconoscono, come l’Italia, prevede che le richieste di arresto viaggino per canali diplomatici, in modo da consentire ai governi, e in particolare ai ministri di giustizia che le ricevono, di esprimere un parere preventivo sull’arresto, un sì o un no basato su ragioni politiche che in questo frangente, se Almasri non fosse stato subito fermato il 19 gennaio prima di avvertire lo stesso Nordio, sarebbe quasi certamente stato un no. E questo perché il giudizio del ministro sulle carte che ricevette – “in inglese e in arabo” ha annotato stranamente, per sottolinearne la difficoltà di consultazione, solo il 20, quando il libico era già stato ristretto in cella dalla Digos di Torino –, fu subito pessimo: superficiali, piene dì contraddizioni, di date diverse e contrastanti. Con un’indagine fatta così, il magistrato Nordio, prim’ancora del ministro, non avrebbe consentito l’arresto. E Nordio s’è meravigliato che certi suoi ex-colleghi ne abbiano chiesto a lui ex-post, e non prima come dice la legge, la convalida, «senza aver letto le carte» Ecco invece perché Nordio tacque, malgrado la pressione della Corte d’Appello di Roma sul cui tavolo la questione era approdata: ai suoi occhi, sebbene Almasri non fosse certo un galantuomo, era sicuramente vittima di un caso di mala giustizia.

Caso Almasri, Nordio: "Incertezze e criticità nell'atto della Cpi, per noi radicalmente nullo"

La versione di Piantedosi è stata del tutto diversa. Il generale libico era tenuto sotto controllo da luglio con quel genere d’attenzione, “codice blu”, che si riserva alle persone pericolose. Era solito concedersi queste vacanze in Europa affidando la sua tranquillità agli otto, dicasi otto passaporti che portava con sé, uno dei quali della Repubblica Dominicana con annesso un visto per gli Stati Uniti per dieci anni. Era seguito, tutti suoi spostamenti da Roma a Londra al Belgio alla Germania, dov’era stato anche fermato prima di riapprodare in Italia, venivano segnalati all’Interpol. Il 18 il codice passò da blu a rosso e la Cpi ne ordinò l’arresto: che venne subito eseguito con efficienza e professionalità tali che Piantedosi ieri alla Camera, diversamente da quanto aveva fatto poco prima Nordio, non ha potuto fare a meno di congratularsi con la macchina del suo apparato di sicurezza. Peccato infatti che Interpol e polizia dimenticarono di avvertire il ministro di giustizia, come prevedono gli articoli 2 e 4 della legge che regola i rapporti con la Corte dell’Aja, impedendogli di esercitare il suo diritto ad esprimersi preventivamente sull’arresto. Piantedosi non ha toccato quest’aspetto: ma tale era la fretta di assicurare alle patrie galere un individuo pericoloso, ha spiegato, che il primo imperativo fu di mettergli le mani addosso, chiuderlo in cella, e quando i magistrati romani, nel silenzio di Nordio, decisero per la scarcerazione, espellerlo al più presto dal territorio italiano dove temevano che potesse combinare guai.

Due ricostruzioni così dettagliate ma così poco combacianti consentono di ricavarne una terza che a qualcuno potrà sembrare arbitraria ma è difficile da smentire: Almasri incappò – ne ebbe la fortuna, dal suo punto di vista – in un sabato pomeriggio, il 18 gennaio, che come si sa nel territorio italiano e nelle sue propaggini all’estero è una quasi domenica. Quando, come prevede la legge, la richiesta di arresto del generale venne consegnata, il 19, all’ambasciata dell’Aja, in sede non c’era nessuno, tranne il personale di polizia a guardia dell’edificio. Ecco la ragione per cui l’ordine di cattura, invece di viaggiare per canali diplomatico-politici come prescritto, finì nelle mani dell’Interpol (in un certo senso il superiore diretto dell’esponente delle forze dell’ordine messo a guardia della porta dell’ambasciata), che tramite i suoi canali eseguì il fermo di Almasri a Torino e poi si rivolse alla magistratura per ottenerne la convalida. Una prassi consolidata attraverso la quale Nordio venne escluso e Almasri cominciò a riguadagnare la libertà. Solo «alle 13, 57 del 20 gennaio», lunedì, ha ricostruito non a caso il ministro della Giustizia, cioè quando Almasri aveva trascorso la sua prima notte in carcere, l’ambasciatore dell’Aja trasmise l’incartamento al Servizio Affari Internazionali del ministero di via Arenula.

Insomma, un pasticcio. Ritardi burocratici; mancanza di comunicazioni richieste dalla legge al ministro competente, Nordio, e tra i ministri; manette che scattano prontamente, forse troppo prontamente, ai polsi di un personaggio certamente riprovevole, ma di cui il governo si sarebbe certamente liberato volentieri, per motivi di sicurezza, “ragion di Stato”, senza il clamore dell’arresto, della scarcerazione e del riaccompagnamento in Libia a bordo dell’aereo di Stato; e una brutta figura con la Corte dell’Aja, che protesta. Per non dire dell’ondata di migranti, spedita eloquentemente dalla Libia a Lampedusa, per sollecitare il ritorno del generale in patria. Su tutto ciò, ovviamente, le opposizioni hanno ballato per un’intera giornata, alla Camera e al Senato. Era inevitabile. Magari anche no

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