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Azizi, condanna a morte vergogna degli ayatollah

4 ore fa 2
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Sono passate poche ore da quando hanno permesso a Cecilia Sala di lasciare il carcere di Evin in cambio della liberazione dell’ingegnere iraniano Mohammad Abedini Najafabadi e già le autorità della Repubblica islamica tornano a colpire un’attivista, una dissidente, un simbolo della resistenza contro il regime atemporale e oscurantista degli ayatollah. Pakhshan Azizi, 40 anni, originaria della città del Kurdistan iraniano Mahabad, detenuta a Teheran dal 4 agosto 2003 e condannata a morte lo scorso luglio con l’accusa di «ribellione e appartenenza a gruppi d’opposizione», ha ricevuto conferma della sentenza mercoledì, mentre la giornalista del Foglio e di Chora Media decollava dall’aeroporto Imam Khomeini diretta in Italia, provata, confusa, ma libera di dimenticare i suoi 21 giorni in isolamento. Sarà impiccata a breve se l’appello per la sua vita, lanciato da Amnesty Internationale e 68 organizzazioni umanitarie internazionali tra cui Defenders of Human Rights Center, l’associazione fondata dalle Nobel Shirin Ebadi e Narges Mohammadi, cadrà, silenziato e invisibile, nel vuoto.

«Vogliono mettere il cappio al collo al movimento “Donna, vita, libertà”» ha scritto ieri da Evin Sepideh Gholian, l’indomita giornalista iraniana che dopo un lungo calvario giudiziario ha pagato con il ritorno in cella il suo libro “Diari dal carcere” (edito in Italia da Gaspari) ma, come molte altre compagne, persevera nell’alzare la voce come può, come riesce, un’eco lontana che sale dalle profondità vischiose di Evin. Message in a Bottle. Parlava di Pakhshan Azizi, Sepideh Gholian, ma anche dell’attivista curda Varishehe Moradi e della sindacalista Sharifh Mohammadi, entrambe condannate a morte per analoghe fantomatiche colpe di «sovversione» e in attesa che il tribunale rivoluzionario convalidi l’accusa pronunciando il verdetto definitivo. Con buona pace delle troppe anime belle, convinte dell’irriducibile braccio di ferro tra i radicali della Guida Suprema Ali Khamenei e i presunti riformisti rappresentanti dal presidente Masoud Pezeshkian, l’Iran chiude il 2024 con quaranta sentenze a morte, un record invidiato solo dalla Cina di Xi Jinping e dall’Arabia Saudita in odor di «rinascimento».

Pakhshan Azizi paga l’impegno per le donne iraniane nella loro infinita lotta contro l’obbligo del velo e per quelle in fuga dall’Isis, yazide in testa, soccorse per anni in Iraq. Paga l’essere stata al fianco di chi dice no al paternalismo che si ammanta d’islam - sciita oggi, sunnita domani come da sempre cattolico, cristiano, induista e voodoo - per perpetrare l’eterno e resiliente ordine del mondo declinato al maschile. Milito ergo sum. E noi invece, sempre meno apocalittici e sempre più integrati, chi siamo? La vita di Pakhshan Azizi vale la nostra. Dimenticarlo costerà un prezzo che nessun futuro Abedini riuscirà a compensare.

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