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L’eredità di Matteotti e il vero ruolo del fisco

4 ore fa 2
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Con la consueta pacatezza, Elsa Fornero si è posta recentemente una domanda non banale: perché mai sembra impossibile parlare serenamente di tasse? A farlo, si sostiene, «nel migliore dei casi, se ne ricavano sarcasmi e improperi; nel peggiore, minacce». E, in effetti, sembra proprio che sia così. A sostenerlo, in termini diversi ma sulle stesse colonne, è stato recentemente anche Ernesto Maria Ruffini cui si riconosce da più parti di aver guidato con competenza l’Agenzia delle Entrate negli ultimi anni. Certo, nel primo caso, è la debolezza della politica – incapace di assumere le proprie responsabilità – che viene messa all’indice mentre nel secondo è all’opinione pubblica – e ai suoi pregiudizi – che viene ricondotto il difficile rapporto fra fisco e contribuenti italiani.

Mi permetto sommessamente di dissentire e la rievocazione delle posizioni di Giacomo Matteotti da parte di Ernesto Maria Ruffini me ne offre il destro. Giacomo Matteotti – cui tutti siamo e saremo profondamente debitori per averci insegnato che alle pulsioni autoritarie ci si oppone, costi quel che costi – era un socialista, segretario nel 1922 del Partito Socialista Unitario nato a seguito della espulsione dal Partito Socialista Italiano dei riformisti turatiani. Che Giacomo Matteotti guardasse con favore alla progressività delle imposte e considerasse il fisco come lo strumento principe per costruire una società più giusta non può dunque sorprendere. Quel che sorprende è, invece, la convinzione – credo di poter dire, piuttosto evidente in ambedue gli articoli citati – che sia questa l’unica possibile lettura della funzione del fisco nelle società moderne. Certamente quella «giusta». Visibilmente non è così. Nello stesso anno in cui Giacomo Matteotti denunciava le violenze, le illegalità e gli abusi commessi dal fascismo nelle elezioni del 1924 e segnava così la propria sorte, Alberto de Stefani, nella sua qualità di Ministro delle Finanze, modellava il sistema fiscale italiano nel segno della efficienza assai più che nel senso della redistribuzione. È appena il caso di ricordare che a pochi mesi di distanza Alberto De Stefani avrebbe lasciato il governo, avendo invitato il capo del governo del tempo a rimettere il proprio mandato e a sottoporsi al giudizio dell’elettorato.

Insomma, non c’è un’unica modalità di leggere il ruolo del fisco, e la natura del rapporto fra fisco e contribuenti e certamente non esiste una modalità «giusta» o addirittura legittima, di farlo. Andiamo a votare anche per questo, se non soprattutto per questo. Non è difficile, infatti, sostenere che l’approccio che ci ha accompagnato dagli anni ’70 – il fisco, con finalità in primo luogo redistributive, al servizio delle decisioni di spesa – non ha prodotto risultati emozionanti e potrebbe forse essere utilmente rovesciato – il fisco al servizio dell’efficienza del sistema, in un bilancio pubblico in cui è la spesa il canale principale della redistribuzione. Per dirla in altri termini, l’espressione «senza risorse non può esistere nessun progetto politico» usata da Ernesto Maria Ruffini lascia intendere – forse oltre le intenzioni di chi l’ha scritta – che i progetti politici siano, sempre e comunque, progetti di spesa e che il fisco debba essere piegato a questo scopo. Non è difficile sostenere che abbiamo sotto gli occhi i disastri originati da questa visione delle cose e che sono concepibili invece progetti politici di segno ben diverso, centrati sulla restituzione agli individui della libertà di scelta sull’utilizzo delle risorse. Si può dissentire, anche recisamente, da questi ultimi, ma non sono meno legittimi e «giusti» di altri. Non soffrono, per così dire, di alcuna inferiorità morale. Ritenerlo impedisce la discussione. E la trasforma in un semplice, ed inutile, scambio di invettive.

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