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I modi sono sempre un po’ sbruffoneschi e da eterno ragazzotto che le spara grosse per farsi sentire. Ma in realtà c’è un qualcosa di tragico di questi tempi nella figura di Matteo Salvini, assolto ma non risorto, proprio nel rapporto con la realtà che gli sta attorno. Lo racconta, innanzitutto, l’incapacità di parlare sui treni, che non arrivano in orario, ormai una costante. Rimosso il venerdì nero, il nostro è ricomparso parlando dei «criminali rossi», a modo suo. Mica si è limitato a condannare la violenza contro le forze dell’ordine al corteo di Roma, ma se l’è anche presa con la sinistra come mandante morale dei facinorosi. E c’è un qualcosa di psicologico, che ha che fare col “rifiuto” di quel che fa, nel suo parlare d’altro, soprattutto di sicurezza, e non di quel che attiene al suo presente. Non solo delle cose che non funzionano, ma neanche di ciò che funziona.
Ai bei tempi della Prima Repubblica (e anche della seconda), accadeva che un leader entrasse al governo in un ruolo, al successivo passasse a un altro, oppure che scegliesse di stare fuori, calandosi, ogni volta, nel nuovo contesto con anima e corpo. Ecco, Salvini invece non si sente ministro delle Infrastrutture, perché si sente ministro dell’Interno mancato in servizio permanente effettivo. È questo il lutto mai elaborato, su cui si è costruito anche un racconto vittimistico: non sono ministro dell’Interno perché c’era il processo Open Arms. Ed è come se l’assoluzione avesse fatto riemergere l’irrisolto. Nella sua testa, il desiderio è ridiventato legittimo, viene meno il motivo ostativo, anche se tutto suggerisce che è impraticabile, per mille ragioni: dai rapporti con la Russia, ai rapporti di forza nel governo, alla linea sull’immigrazione, che è sotto controllo senza che sia stato chiuso un porto, e non è un dettaglio.
Meloni, "Salvini sarebbe un ottimo ministro dell'Interno, ma il cambio con Piantedosi non è all'ordine del giorno"
L’elemento tragico è proprio questo e ha a che fare con la capacità di adattamento, anche del racconto, al principio di realtà. Per cui, chiuso in un orizzonte tutto egoriferito come se una sentenza portasse indietro l’orologio della storia, non riesce a trovare una bussola, anzi persevera nello stesso schema non vincente, perché è l’unico che conosce. Aveva puntato tutto sul trumpismo e si ritrova Giorgia Meloni a Mar-a-lago. Si è riproposto per il Viminale ed è stato stoppato dalla premier, ma ancora non se lo toglie dalla testa. E intanto si è aperta una voragine, tutta interna alla Lega, sul delicato terreno del Nord, completamente espunto dalla sua scala di priorità – neanche di quello parla – sia in termini di Autonomia sia di Terzo mandato.
La mossa di Giorgia Meloni sul terzo mandato è, nella sua sostanza politica, un attacco feroce al cuore della Lega condotto con implacabile determinazione. Sulla carta, al centrodestra, sarebbe convenuto consentire a Vincenzo De Luca di candidarsi, perché in Campania si sarebbe andati con tre poli, e ci sarebbero state più chance di vittoria. E magari sarebbe iniziato, nel centrosinistra, un film analogo anche in Puglia, chissà. L’impuntatura di Giorgia Meloni è il classico pugno del comando. Perché, d’un colpo, non solo inchioda Piantedosi al Viminale, ma apre la partita del Nord nel centrodestra e mette Luca Zaia, almeno potenzialmente, sul mercato politico nazionale. Ovvero: una doppia Opa ostile verso Salvini. Una sul Nord, dove la premier ambisce a esprimere un “suo” candidato lì dove la Lega ha il suo insediamento più profondo e radicato grazie ai governatori che ne incarnano il volto più pragmatico, di governo, ragionevole. Quel “sindacato del Nord” che rappresenta il felice paradosso su cui poggia Salvini. Lui incarna una linea opposta rispetto al partito dei produttori operosi, ma ad esso deve la sua forza, declinante nel resto d’Italia, dove voti e ceto politico intercettati ai tempi d’oro della Lega nazionale sono trasmigrati altrove.
L’altra Opa lanciata sul medio periodo è in casa leghista, dove fa esplodere le contraddizioni, rovesciando su Salvini l’ira dei veneti (che rappresentano metà del comitato federale della Lega), dopo che in Lombardia, sostanzialmente, il leader leghista, ha perso il congresso con l’elezione di Massimiliano Romeo a segretario della Lega Lombarda. Al di là del destino di Luca Zaia, da sempre poco incline a incarnare i panni dell’anti-Salvini, ci sono le condizioni di contesto per una contendibilità interna. Magari non subito.
Ma si sa come vanno le cose da quelle parti: sembra che non succeda mai nulla, non ci sono grandi dibattiti in un partito, si diceva una volta, “leninista” nei metodi, poi di fronte ad un trauma, patatrac, si apre la questione della leadership in due minuti.