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Iran, il bivio atomico che cambia la storia

4 ore fa 2
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La sera della liberazione di Cecilia Sala, durante un evento sociale, ho incontrato l’ambasciatore iraniano a Roma con cui ho scambiato qualche convenevole in farsi, eco lontana dei miei anni da giovane diplomatico a Teheran. L’ambasciatore era raggiante e ciò non mi ha sorpreso. In questo momento la positiva conclusione della vicenda ha per l’Iran un’importanza che va ben oltre il caso specifico. In una fase di grande vulnerabilità, Teheran tenta di proiettare una parvenza di disponibilità al dialogo, consapevole della precarietà della propria posizione.

Gli obiettivi strategici iraniani, che solo un anno fa sembravano realistici, si sono oggi dissolti in una dolorosa illusione. L’espansione dell’influenza di Teheran in Medio Oriente, la conquista di una leadership regionale a danno dei Paesi sunniti, l’allontanamento degli Stati Uniti dall’area e l’indebolimento di Israele appaiono ora traguardi lontani. L’Asse della Resistenza, una volta bastione della strategia iraniana, è stato scardinato e ha perso la sua funzione di presidio anti-israeliano nella regione. Hamas è stato severamente degradato, Hezbollah gravemente indebolito, mentre il regime di al-Assad è crollato. Restano gli Houthi in Yemen, partner decentrato e di scarso peso rispetto a quella che era una rete strutturata e minacciosa. La perdita della Siria, ora sotto l’influenza turca, priva Teheran di un alleato strategico e segna la fine del più importante snodo logistico di sostegno a Hezbollah in Libano. Questo sviluppo costituisce una sconfitta strategica e il simbolo del declino dell’Iran come potenza regionale.

Internamente, l’Iran affronta una crisi profonda: l’inflazione ha raggiunto livelli insostenibili, mentre le sanzioni e la mancanza di investimenti hanno minato il settore energetico. Il crescente malcontento popolare minaccia la tenuta del regime, evidenziando il paradosso di un Paese ricco di risorse energetiche ma incapace di rispondere ai bisogni essenziali dei suoi cittadini.

Questo contesto è aggravato dal ritorno di Trump alla Casa Bianca, che alimenta il timore di un confronto diretto con gli Stati Uniti. A Teheran, Trump è percepito come una minaccia concreta, mentre resta vivido il ricordo dell’eliminazione, durante il suo primo mandato, del generale Soleimani, simbolo della proiezione militare iraniana. Il timore di un intervento congiunto di Stati Uniti e Israele contro i siti nucleari grava oggi sul regime già indebolito da una crescente fragilità interna.

In questo quadro fosco, l’obiettivo prioritario della Repubblica Islamica rimane la sopravvivenza, e la questione nucleare si pone come una scelta strategica cruciale. All’interno del regime, il dibattito si è acceso, contrapponendo chi spinge per un rafforzamento militare e nucleare come strumento di deterrenza, e chi invece propugna un’apertura al dialogo internazionale per attenuare l’impatto delle sanzioni. Questo confronto va ben oltre la frettolosa semplificazione tra «moderati» e «radicali» ed evidenzia la tensione tra pragmatismo strategico e ideologia rivoluzionaria che ha sempre caratterizzato la politica estera iraniana.

Oggi Teheran ha davanti a sé tre strade. La prima è tentare di ricostruire l’Asse della Resistenza, ma questa opzione è lunga, difficile e incerta poiché elementi fondamentali come la Siria sono ormai irrimediabilmente perduti. La seconda prevede un’accelerazione del programma nucleare: l’Iran sarebbe a poche settimane dall’ottenimento di uranio arricchito a livello militare e potrebbe dotarsi di un’arma nucleare entro un anno. Tuttavia, questa scelta comporterebbe il rischio di una risposta militare devastante da parte di Israele e Stati Uniti. La terza opzione consiste nell’avviare negoziati sul programma nucleare in cambio di un alleggerimento delle sanzioni, mossa che rafforzerebbe la stabilità sociale del Paese. Il presidente Pezeshkian ha ripetutamente proposto tale opzione. Esiste, tuttavia, una quarta possibilità: che Teheran tenti di sfruttare un eventuale negoziato come tattica dilatoria per guadagnare tempo, stabilizzare l’economia e accelerare in segreto il programma nucleare. Sarebbe una scelta molto rischiosa. Per questo motivo, ogni eventuale negoziato dovrebbe includere garanzie stringenti e meccanismi rigorosi di verifica sul programma nucleare.

A loro volta, gli Stati Uniti potrebbero considerare un negoziato con l’Iran come un’occasione per ridurre le tensioni in Medio Oriente e concentrare risorse sull’Indo-Pacifico, dove la competizione con la Cina costituisce la priorità strategica. In sintesi, la prudenza strategica che si auspica da parte iraniana dovrebbe essere accompagnata da una pazienza tattica da parte degli Stati Uniti.

Di fronte a un bivio cruciale, il regime iraniano deve scegliere tra il rischio di un confronto aperto e l’opportunità di un dialogo. Le scelte che compirà determineranno non sono il futuro della Repubblica Islamica, ma influenzeranno anche gli equilibri del Medio Oriente e le dinamiche geopolitiche globali.

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